“Sorry we missed you”, welfare, lavoro e famiglia secondo Ken Loach

ROMA - “Sorry we missed you”: spiacenti di averti perso, di non averti trovato. Nel titolo dell'ultimo film di Ken Loach c'è la drammaticità della storia che racconta: la storia di incontri mancati, di relazioni che si inpoveriscono, di un'attenzione che si sposta, per necessità ma anche, sempre, per scelta. Ken Loach parla di lavoro, come sa e ama fare. Parla del lavoro così come è diventato oggi: non sono gli operai i protagonisti del suo film, ma un corriere e una badante: due delle identità lavorative più fragili e al tempo stesso più centrali della nostra economia. Da un lato la new economy del commercio online e delle consegne a domicilio, dall'altra il welfare in cui soggetti fragili – nel film anziani e disabili – sono accuditi da lavoratori altrettanto fragili, a cui affidano e confidano le loro vite. Ricky il corriere e sua moglie Abbie, la badante sono entrambi ingranaggi di un sistema che a malapena conosce i loro volti e i loro nomi, che li gestisce e li controlla a distanza, senza perderli mai di vista ma senza mai vederli davvero. Provano tenacemente, entrambi, a resistere a quell'alienazione che sembra inevitabile in un sistema così concepito: Ricky spende qualche minuto a conversare con i clienti, o a mangiare un panino con la figlia, che lo accompagna sul furgone in una delle sue convulse giornate. Non permette, per una volta, che il “beep” del suo “spaccaminuto” impedisca loro di godersi un panorama e una breve chiacchierata. Abbie è una lavoratrice sociale che ha ben inteso la sua missione: non guarda l'orologio, ma il bisogno, l'urgenza, la solitudine di chi può chiamarla, per disperazione, anche il sabato sera, interrompendo una cena finalmente spensierata insieme alla famiglia.

Ken Loach, però, non permette allo spettatore di illudersi: non porterà nulla di buono l'investimento che Ricky ha fatto, i sacrifici che la moglie ha accettato, per concedergli di “mettersi in proprio” e acquistare il suo furgone: un coraggioso (o imprudente) tentativo di emancipazione e realizzazione professionale, con gli anni che avanzano tra un “lavoretto” e l'altro. Voleva riscattarsi, garantire dignità a se stesso e alla sua famiglia, garantendo ai figli un futuro migliore. Ma ha “perso” l'orientamento e la misura, Ricky, facendo “mancare” ciò di cui i ragazzi, soprattutto il più grande, non possono fare a meno: la presenza e l'affetto rassicurante che solo un genitore può dare. Annie ci prova a rimboccarsi le maniche, a sostenere la scelta del marito, a credere nel futuro che lui sogna anche per lei: mette da parte i propri bisogni, cerca sempre la mediazione, prova a prevenire il conflitto, o a domarlo quando esplode. E intanto porta avanti il suo lavoro, riconoscendo e accogliendo i bisogni di coloro di cui si prende cura: quando il ragazzo disabile reclama il suo diritto di restare ancora a letto, perché non ha altro da fare che passare le ore a guardare le pareti, decide che ripasserà più tardi, quando sarà in pausa, per aiutarlo ad iniziare la giornata. E' cruda la realtà che racconta Ken Loach, in tutte le sue declinazioni: la disabilità non è quella “diversa abilità” che giustamente viene rivendicata: nel suo film è una mancanza di possibilità e di felicità, che viene compresa e accolta solo da una badante a ore piena di buona volontà e di debiti.

E' uno spietato sistema lavorativo, che non comprende ma conta, non ascolta ma misura, non sostiene ma sanziona, non riconosce il merito e non valorizza la dedizione, ma chiede il massimo e dà il minimo, fino a rendere uomini e donne schiavi inconsapevoli, che scelgono di dare tutto, senza rendersi conto che resteranno senza niente. Non è la storia solo di badanti e corrieri a domicilio: e sarebbe un peccato leggere il film come un condanna ad Amazon e agli altri giganti dall'e-commerce: il film di Ken Loach racconta il mondo del lavoro a tutto tondo, mettendo a fuoco nitidamente le contraddizioni, le sproporzioni, le derive. E lo racconta facendo proprio per lo più il punto di vista di Seb e Lisa Jane, i due figli della coppia: il maggiore ribelle e oppositivo, apre in famiglia un conflitto che cresce nella misura in cui vede il padre sempre più assente e lontano; Lisa Jane ha 11 anni e non urla ma piange e bagna il letto, di fronte alla ferita che vede aprirsi nella sua famiglia. Entrambi, Seb e Liza Jane, chiedono solo che “tutto torni come prima”: prima di perdersi, prima di “mancarsi”. (Chiara Ludovisi)

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