Premio "L'anello debole", da Monicelli l'elogio a ''chi non si rassegna''

CAPODARCO DI FERMO – Mario Monicelli alla serata conclusiva del premio ‘’L’anello debole’’. E’ successo sabato sera, dove il novantatreenne regista ha presenziato alla premiazione dei vincitori della quarta edizione della manifestazione.
Un Monicelli come sempre ironico, ma attento a ‘deturpare’ la sua figura, e in fondo la sua opera, nel confronto con la realtà della Comunità di Capodarco (che ha ospitato l’atto finale del premio) e delle opere finaliste. Insomma: colui che ha scritto la storia del cinema italiano si è schernito, si è defilato, ha evitato il confronto tra il suo mondo e quello raccontato dalle opere che hanno partecipato al Premio, nonché con l’attività svolta da chi nella comunità vive e vi opera.
Rivolgendosi ai presenti, infatti, Monicelli ha affermato: “Ringrazio don Vinicio che mi ha portato qui, in questa serata, ma soprattutto in questo luogo così pregnante, denso, autentico, dove si vuole contribuire a cambiare la realtà che ci circonda. E quindi anche il mondo”.
Un concetto che Monicelli ha esteso anche alle opere che hanno partecipato al Premio, concedendosi un lungo e spietato paragone con i suoi film e con il documentario da lui portato a Capodarco, girato nel quartiere Monti di Roma.
 
La giornalista Daniela de Robert, membro della giuria del premio (sul palco assieme a Monicelli e a don Vinicio Albanesi), lo ha incalzato ricordando anche la valenza del suo cortometraggio, capace di far vedere la realtà di un quartiere, la quotidianità, ciò che si è perso e ciò che si rischia di perdere. Ma è proprio da questa considerazione che ha preso spunto Monicelli: “Qui (rivolto ai partecipanti al concorso, ndr) vedo che nessuno si rassegna. I bambini in Africa che inseguono il sogno del pallone, i bambini sordomuti che imparano a farsi comprendere, ecc… Chi racconta il quartiere romano in quel modo, invece, lo fa quasi con un sentimento di rassegnazione, che sarebbe bene non raccontare. Allora dico che vorrei cancellare il mio documentario. E’ inutile, non serve: è da 93enne! Se si vuole far capire cos’è oggi questo Paese, la mia opera è inutile. L’Italia che va alla deriva va raccontata in maniera diversa da come l’ho raccontata io. Voi lo fate. E per fortuna siete giovani… La cosa più sbagliata che possiamo fare è accettare la rassegnazione. E invece non ci si deve rassegnare!”. Un applauso, uno dei tanti, ha accolto le parole del ‘maestro’, termine che lui sembra comunque rifiutare.
 
Dunque, una presenza imbarazzata la sua. Fin dal primo approccio con la platea. “Sono molto imbarazzato – ha affermato dopo aver assistito alla premiazione delle opere vincitrici -. Ho assistito a immagini e documenti sulla condizione umana, sui tradimenti, su persone che vogliono mutare la loro situazione, raggiungere dei traguardi. Condizioni di impossibilità, di speranze, di situazioni icastiche. Immagini assolute, prive di condizionamenti. Di fronte a tutto ciò, quello che ho fatto io non vale nulla. In pratica, mi avete attirato in una trappola!”. Altro applauso, da una platea mai convinta della veridicità di tali affermazioni. Come dar credito, infatti, a una tale e incessante propensione all’autodistruzione di un regista che ha firmato veri e propri capolavori della cinematografia italiana?
Ma di se stesso dice: “Ho sempre cercato di guardare l’umanità soprattutto per quella massa di persone che ambiscono a star meglio e falliscono. Pongo l’ironia proprio lì, dentro queste persone. Cos’è l’ironia? E’ un sentimento gentile, non un sentimento cattivo. La cattiveria passa con altri toni: il sarcasmo, la satira, il grottesco. L’ironia è più dolce e umana. Quanto alle vostre opere, vi ho visto pregnanza, verità. Un coraggio non solo artistico o narrativo ma un coraggio nell’affrontare certe verità, nel raccontarle, nel mettersi anche economicamente in gioco. Per fortuna ho visto poco, altrimenti sarei ancora più imbarazzato. Mi sentirei inadeguato”.
 
Un concetto che è ritornato costantemente nel dibattito finale con il regista. “I miei sono stati film ben fatti, divertenti – ha affermato Monicelli -. Il pubblico va a vederli, si diverte. Tanti personaggi, a volte anche commoventi. E’ però una ‘tempestina’ in un bicchiere d’acqua: lascia solo un bel ricordo. Qui la cosa è diversa. Non si può fare un paragone con chi vuol dire qualcosa di più, un qualcosa che ti deve lasciare anche un po’ colpevole. Di fatto io stasera sono stato ‘accusato’ di far divertire le persone dicendo cose che alla fine possono avere anche un piccolo significato. Ma qui c’è chi lo fa senza cercare di piacere al pubblico. Però le cose sono spesso ugualmente se non più interessanti. E anche divertenti. In un paio di casi sono gioiosamente divertenti, hanno la loro ironia. Che nei miei film non c’è! Ma non voglio più parlare di me, le cose non sono paragonabili”.
 
Un paragone che si è protratto però nel paragone tra film classico e cortometraggio. Due generi neanche lontanamente paragonabili, secondo Monicelli.
“I film che ho fatto io sono il contrario del cortometraggio. Fare il documentario è una cosa difficilissima, perché bisogna avere un occhio particolare: nello spazio di più tempo bisogna saper cogliere dei dettagli, aspetti specifici per raccontare una situazione, un popolo, una condizione. I miei film sono invece elaborati, rifatti in 20-30 persone che li riscrivono. Tutto è calcolato mille volte… Non è come uno che va sul posto e, senza modificare la realtà, la coglie in pieno. Con quell’occhio che hanno i veri documentaristi, che tra l’atro sono pochissimi. Io questo non l’ho so fare, non l’ho mai fatto”.
Insomma, per concludere, “anche il mio cortometraggio può essere piacevole – ha concluso il regista tornando sulla sua opera mostrata nel corso della serata – ma è cosa diversa dal voler significare, mostrare una realtà. Ripeto: per il documentario serve un occhio speciale, l’occhio del Ciclope, unico, che illumina e che guarda. Noi i personaggi invece li scriviamo, li inventiamo, li rubiamo dalla letteratura, dal teatro, dalla pittura… E qui non si ruba nulla: i personaggi sono presi in quel preciso momento per quello che sono. Ed è questo il difficile”. (da.iac)
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